Gaeta cadde esattamente 150 anni fa, il 13 febbraio 1861, dopo tre mesi di bombardamenti incessanti esercitati soprattutto con i cannoni a lunga gittata che il Piemonte impiegava per la prima volta.
Non ci fu alcuna dichiarazione di guerra da parte di Torino, ma solo l’ordine di Cavour impartito a Cialdini di prendere la piazzaforte, dove era asserragliato l’ultimo scampolo del regno borbonico, prima del suo discorso della Corona alla Camera così da poter fare bella figura rendendo noto che tutta la penisola era italiana. In realtà (mancando oltre a Gaeta anche Messina e Civitella del Tronto, che resistevano inopinatamente, ma sarebbero capitolate nei giorni successivi) Cavour voleva subito Gaeta, al prezzo della sua devastazione, come in effetti avvenne, perché lì dentro si era incaponito a resistere Francesco II con buona parte della sua corte. Finché l’ultimo e più debole dei Borbone avesse continuato a tenere il piede in terra ormai italiana, Vittorio Emanuele II non avrebbe potuto proclamarsi re d’Italia: lo avrebbe fatto di lì a un mese ma senza cambiare né il nome né il numero ordinale, a dimostrazione che non era l’Italia che nasceva sotto il suo scettro ma era il Piemonte che si estendeva a tutta l’Italia.
Gigi Di Fiore scrive tutto nel sottotitolo del suo libro Gli ultimi giorni di Gaeta (Rizzoli): “L’assedio che condannò l’Italia all’unità”. Un titolo tranchant per un libro decisamente di parte: dalla parte cioè della causa per danni di guerra che il Comune campano ha intentato allo Stato italiano il quale però si è sempre tenuto ben distante dal riaprire incresciose pagine della propria storia come dal rinfocolare capricciosi rigurgiti neoborbonici.
Di Fiore non fa l’avvocato dell’angelo né si erge a perito di parte nel quantificare i danni. Ricostruisce invece i giorni dell’assedio con una capacità di resa documentaria che ha dell’incredibile e che deve essergli costato non poco tempo trascorso in archivi di giornale dell’epoca e in biblioteche di qua e di là del Golfo. Un bel libro di storia rimossa e distorta dunque, se non fosse che non essendo un narratore Di Fiore dà agli eventi un passo non cronologico ma diacronico, sicché anticipa fatti che poi ritrova quando li raggiunge avanzando verso il D-Day della resa, delinea figure che risultano indistinte, si espone in prima persona prendendo parte alle questioni di politica internazionale.
Ma è potente nella rappresentazione, meglio nella presentazione della scena, fedele nell’interpretazione dei fatti, misurato – forse è meglio dire trattenuto – nella sua manifesta avversione contro i Savoia. È certamente innegabile il torto subito da Francesco II non solo dal conquistatore sardo ma anche dalle potenze europee, la Francia innanzitutto. Ma è anche innegabile che mentre resisteva sotto le bombe rigate di Cialdini, a Napoli i suoi sudditi erano già da settimane in piazza per festeggiare il nuovo re. Solo molti decenni dopo Napoli sarebbe stata la culla del neoborbonismo.
Gaeta è secondo lei uno dei motivi oggi alla base del sentimento neoborbonico?
L'assedio di Gaeta è la vicenda simbolo della fine del regno autonomo delle Due Sicilie con la conseguente annessione del Sud al resto dell'Italia. Per questo, nel sentimento che io, più che neoborbonico, chiamerei di «una nuova coscienza della storia meridionale», rappresenta l’avvio di una serie di scelte unitarie, economiche e politiche, prese a danno del Mezzogiorno.
Lei non taccia mai di tradimento gli ufficiali, come il maggiore Giacomo Guarinelli, che passarono con i Savoia e combatterono contro i Borbone. Come dunque li considera?
Calcolatori, che passarono sul carro del vincitore quando furono sicuri che il cammino era segnato. In questo le vicende risorgimentali racchiudono davvero tutto il Dna della futura storia italiana. E perciò scrivo che raccontare l’assedio di Gaeta significa descrivere il meglio e il peggio delle caratteristiche degli italiani del Nord e del Sud.
L’assedio di Gaeta sembra riscattare, per l’attaccamento dimostrato alla bandiera napoletana, l’infamia di molti ufficiali borbonici scappati di fronte a Garibaldi. Tanta codardia prima e tanto coraggio alla fine.
Le storie dei vinti, di coloro che, anche quando tutto è perduto, decidono di rimanere tra i predestinati alla sconfitta, mi hanno sempre affascinato. Per questo da anni cerco sempre nuove verità su quei militari che rimasero con i Borbone fino a Gaeta. Le lusinghe del denaro, l’incapacità, lo sbandamento, l’impreparazione di molti ufficiali caratterizzarono invece le vicende in Sicilia e Calabria. In realtà, lo sbarco di Garibaldi fu sottovalutato e lo «stato di guerra» venne dichiarato solo quando Francesco II partì da Napoli per Gaeta il 6 settembre 1860.
Fu una guerra civile disputata anche con toni di fair play. Molte furono infatti le premure usate da Cialdini nei confronti dei napoletani: le ripetute interruzioni dei bombardamenti, il soccorso dei feriti e poi dei malati di tifo, le tregue concesse…
Fair play sollecitato dagli alleati francesi. La sorte dei sovrani Borbone stava a cuore comunque all’imperatrice e le cosiddette premure di Cialdini erano altrettanti segnali alle diplomazie internazionali che il Piemonte non era quell’aggressore descritto nei dispacci diffusi dai ministri di Francesco II a Gaeta.
Questo fair play sarà comunque del tutto dismesso dopo l’unità d’Italia quando contro il brigantaggio i piemontesi useranno ben altri metodi. Come spiega tale inversione di trattamento in così poco tempo?
Al di là dei singoli episodi, l’assedio di Gaeta fu un violento bombardamento anche contro i civili. I morti furono centinaia tra i gaetani e 1200, tra tifo e bombe, tra i militari delle Due Sicilie. Nei documenti (che pubblico) del ministero della Guerra si conferma la sperimentazione fatta contro Gaeta dell’allora micidiale arma dei cannoni a lunga gittata. La guerra al brigantaggio fu quindi la prosecuzione di un atteggiamento culturale di conquista con la repressione anche di una lotta di classe contro contadini che avrebbero potuto trasformare una rivoluzione politica in un rivolgimento sociale. Classi dirigenti del Nord e latifondisti del Sud non potevano consentirlo. E chiesero, insieme, più cannoni, soldati e leggi speciali.
A Gaeta si ritrovarono militari di tutto il Meridione: siciliani, lucani, pugliesi. Molti di essi dopo la capitolazione divennero briganti. Lei lo adombra ma non lo afferma.
Molti fecero parte delle bande di briganti. Nelle memorie di Carmine Crocco si descrive la composizione della sua banda di oltre mille uomini con organizzazione di tipo militare e partecipazione di sottufficiali dell'esercito borbonico. Erano delusi, militari sbeffeggiati senza più la patria in cui avevano creduto e per cui avevano combattuto. Sradicati in un regno italiano cui si sentivano estranei.
Quasi 25 mila soldati borbonici, riparati nello Stato pontificio, furono dal re liberati dal giuramento militare. Un esercito grande più del doppio rispetto alla spedizione piemontese a Gaeta che poteva ben essere armato perché agisse alla spalle degli assedianti. Perché non fu considerata questa ipotesi?
Mancarono strategia ed organizzazione. Questione di capi e direzione militare. Anche per questo in Piemonte si cercò di portare alla causa unitaria quanti più ufficiali meridionali possibili. Quei soldati, alla fine, si trovarono senza chi fosse in grado di guidarli. Ma era più in generale il regno delle Due Sicilie ad essere ormai isolato e abbandonato negli equilibri internazionali destinati in quel momento, per scelte e decisioni di anni precedenti, ad appoggiare il disegno unitario del Piemonte.
Fu l’inesperienza a indurre Francesco II a non incoraggiare la guerriglia che pure impensierì non poco i piemontesi? O piuttosto fu il suo ideale di guerra regolare a frenarlo?
Nonostante quello che molti credono, Francesco II fu un signore aristocratico con un’idea dei rapporti umani e delle guerre in cui prevaleva la correttezza e la lealtà. Lo si rileva in molti documenti, alcuni inediti, sugli anni del suo esilio, in cui visse comportandosi con grande dignità. Anche per questo fu sempre poco disposto ad appoggiare la guerriglia e, anche quando autorizzò l’azione di truppe irregolari nei mesi dell’assedio di Gaeta, lo fece con grande riluttanza.