lunedì 20 novembre 2017

L'amore ai tempi del "com'era"

L'autore Michele Guardì, regista televisivo
Articolo uscito il 17 novembre 2017 su la Repubblica-Palermo

Camilleri ha trovato un compagno di salacità agrigentino nel regista Michele Guardì, congiungendosi entrambi a un altro conterraneo di mordace prurigine, Navarro della Miraglia: a riprova di una vena licenziosa che all’ombra dei templi ha risparmiato Sciascia e sfiorato Pirandello, contribuendo alla definizione della tipica commedia alla siciliana dove il sesso è più smicciato che esibito.
Ma Sciascia entra in taglio per il gusto della microstoria e dei faits divers che Guardì ha mutuato trasfondendo un caso sepolto di cronaca in un romanzo, Fimminedda (Sperling & Kupfer, pp. 204, euro 16,90), nel quale la Sicilia martogliana degli anni Sessanta si rispecchia nel segno della filama e del cortile, la diceria e il pettegolezzo. Ci sono insieme Brancati e Patti nella storia paesana di Palmina e Vincenzino, rifacimento in scala reale della favola della bella e la bestia, la vagheggina oggetto di desiderio collettivo e il misirizzi di nessuna qualità, "fimminedda" appunto per il suo debito di mascolinità, tutt’e due preda di una minorità di modi che li rende strumento delle madri, erinni ossessionate dall’occhio sociale più che preoccupate del benessere dei figli. 

La storia è vera, teatro nel 1969 un paesino dell’Agrigentino. Dopo cinque anni Palmina lascia il marito Vincenzino non tanto perché è rimasta vergine quanto per il dileggio di cui la suocera la fa oggetto accusandola a bella posta di essere sterile, nell’intento anzichenò di nascondere in piazza la condizione del figlio impotente, incolpando la nuora. La denuncia per abbandono del letto coniugale si intreccia con quella di matrimonio non consumato, germinando in un paradosso per cui (risultando Vincenzino ben poco virile a una perizia e contando più il processo in piazza che quello in aula), rovesciato il canone, la madre di Palmina vuole che il genero venga assolto, mentre quella di Vincenzo punta a farlo condannare - e questo chiede all’avvocato -, per modo che possa la prima sancire e la seconda smentire, pubblicamente, la verità su dimensioni d’organo e valitudine virile che sono doti da valere una reputazione, cosa di gran lunga più importante di una sentenza. 
La battaglia tutta di malizia ingaggiata dalle madri segnerebbe a distanza di venti anni dal Bell’Antonio il superamento del modello brancatiano dell’onore difeso dai soli padri e quindi un progresso dell’emancipazione femminile o un ritorno a preminenze matriarcali se non fosse per il senso di farsificazione e di ridicolo che il caso induce nell’additare una Sicilia dove, pirandellianamente e convenzionalmente, l’apparenza fa premio sulla forma e l’inganno sulla verità.
Michele Guardì, al suo esordio narrativo, forte dell’esperienza giovanile di cabarettista, come anche di regista di decine di programmi Rai di tipo leggero, accomunabili perciò al genere della commedia, ha saputo cogliere le contraddizioni della vicenda di cui è stato protagonista con un tono ilaro-sardonico che rende il romanzo un divertissement sostenuto da un grado di sotie che rimanda al teatro di costume principalmente siciliano. 
«In realtà - dice - presi in qualche modo davvero parte al processo, perché fui per caso nominato pubblico ministero onorario alla prima udienza dopo aver conseguito la laurea in Legge a Palermo e tornato che fui a Casteltermini. Pensavo allora di fare l’avvocato. La vicenda mi colpì, tanto che raccolsi tutte le carte. Mandai a quel tempo anche un “trattamento” a Tuccio Musumeci che vedevo nei panni di uno degli avvocati nell’ipotesi che si potesse farne un film, ma il progetto finì lì e me ne dimenticai. Tre anni fa l’attore catanese mi chiama e mi dice che c’è un produttore cinematografico interessato, ricordandomi quindi il caso giudiziario e spingendomi a scrivere questo romanzo. Che narra una storia quasi tutta vera, tolte alcune aggiunte di colore. Vero è che il reale Vincenzino poi scomparve e non se n’è saputo più niente. Vero è anche che la reale Palmina, oggi morta, rimase poi incinta. E veri sono tutti gli aneddoti che ho ripescato dalla memoria e che riguardano il mio paese. Cui sono legatissimo. Vivo e lavoro a Roma, ma ogni quarta domenica di agosto torno puntualmente a Casteltermini e sto dietro San Calogero in processione con la mia forchetta in tasca per mangiare la pasta al sugo di melanzane».
Dando ai personaggi nomi di amici di Casteltermini, tanto per rimanere nell’ambito del reale, Guardì ricostruisce un gustoso teatro di mimi e caratteri sul quale, dal maresciallo al parroco, dal cancelliere al barbiere, la rappresentazione dei fatti inscena un moto che diventa corale quanto più le consuocere brigano perché non rimanga privato, contro dunque ogni legittimo riserbo, nel presupposto che la voce di popolo è norma di legge e che nella Sicilia dei campanili e dei rapporti di gomito più ci si nasconde e più si viene scoperti. Di qui la centralità del circolo (mitologema presentissimo nella cosmologia camilleriana) che agisce da sala operativa e centro di smistamento delle dinamiche e delle notizie sul morboso scandalo della mogliettina illibata, fino all’esplosione dei contrasti sulle diverse opinioni che culminano in una rissa e dunque nell’esilarante arresto in massa dei soci da parte del maresciallo, il circolo essendo un fulcro di potere e una cabina di regia così come il parroco, anch’egli agente regolatore e riparatore di devianze e scostumanze. 
Con uno stile che nulla concede all’aggettivazione corriva e ben si guarda dal cedere al parlato dialettale, elegante nella sua stimolazione della risata in forza dei soli rivolgimenti dell’intreccio, in ciò voltando le spalle a Camilleri, pur suo confrère, Guardì ci dà un romanzo che restituisce della Sicilia un divertito minuetto di tipi e scene di ieri i cui echi giungono fino ad oggi ed entro il retaggio del quale giganteggia la figura di Palmina. «La vidi in pretura - ricorda il regista. - Da fare letteralmente perdere la testa. Aveva un vestitino verde aderente, le scarpe basse, senza trucco e i capelli a crocchia. Mi sembrò Stefania Sandrelli di Sedotta e abbandonata. Tutto il paese ci impazziva. Solo a Vincenzino, “fimminedda”, non faceva effetto».