domenica 3 dicembre 2017

I tesori nascosti trovati da Sgarbi


Articolo uscito giorno 1 dicembre 2017 su la Repubblica-Palermo

I tesori nascosti, tra dipinti e sculture, sono quelli sepolti nelle collezioni private, per cui ammirarli può costituire un privilegio e un’occasione irripetibile, dal momento che non andranno mai in alcun museo. Perlopiù sono opere sconosciute, appartenendo a un circuito molto ristretto fatto di banche, fondazioni e collezionisti. Per vederle occorre chi, come Vittorio Sgarbi, riesca a convincere i proprietari a concederle in prestito. L’esperto ferrarese ne ha raccolte oltre cento (molte però della fondazione Cavallini Sgarbi) ed ha allestito una mostra, intitolata appunto “I tesori nascosti. Da Giotto a de Chirico”, che rimarrà esposta fino al 28 maggio al Castello Ursino a Catania dopo aver soggiornato a Napoli. 
Non è stata un’impresa facile se si pensa al valore commerciale di ogni tela. “Ercole e Onfale” di Giovanni Francesco Guerrieri, tanto per fare un esempio, vale almeno cinque milioni, sicché, fatti i conti, sono stati riuniti non meno di trecento milioni in opere d’arte che certamente vale davvero vedere, giacché formano la mostra forse più bella e grandiosa delle tante promosse a Catania. 
A Sgarbi è tornata peraltro utile perché, con sua meraviglia, ha potuto scoprire, visitando la chiesa del Carmine, che Sebastiano Ceccarini, un minore marchigiano del Settecento presente nella sua esposizione, operò a Catania lasciando una preziosa “Madonna con Bambino” come ulteriore prova che la Sicilia non era affatto tagliata fuori dalle comunicazioni artistiche di maggior momento neppure nell’età dei Lumi.
Operazioni come quella di Sgarbi si prestano tuttavia ad accuse di farragine per il sospetto che le opere esposte siano quelle che è stato possibile avere, giusto il detto dello stesso studioso che campeggia su una parete: “Non si trova quello che si cerca, ma si cerca quello che si trova”. In realtà da Giotto a de Chirico non corre alcun rapporto se non un filo che da una svolta porta sette secoli dopo ad un’altra svolta tutta italiana, dall’invenzione dello scorcio all’applicazione dello scorporo. In mezzo, quanto a innovazioni e rivolgimenti, c’è di tutto, come anche prima, visto che la mostra si apre con alcune sculture federiciane del Duecento. 
La sgradevole sensazione di essere in una specie di barnum è stata mitigata offrendo un percorso cronologico, criterio diverso da quello che Sgarbi scelse per la mostra Expo 2015 “Tesori d’Italia”, dove le opere furono divise secondo il territorio regionale. Questa rassegna, che ne è figlia, fa invece un pot-pourri nazionale, ma bada con cura a distinguere gli artisti riservando spazi esclusivi a quanti, come Corrado Giaquinto, Domenico Morelli, Jusepe de Ribera e altri, sono presenti con più tele. L’opera regina, immancabile anche in una galleria di capolavori come questa, è senz’altro “La Maddalena addolorata” del Caravaggio, che - sebbene l’attribuzione sia dubbia, tranne che per Sgarbi - si aggiunge potentemente alle altre tre Maddalene del Merisi integrandone l’ossessione in una figura di donna che nasconde il volto per mostrare l’anima. 
Ma altre opere di assoluta eccellenza meritano attenzione: di Paolo Veronese una “Vergine Maria” che è una originale “annunciazione” dove la Madonna ormai anziana riceve l’avviso della sua morte e veste il manto azzurro, segno di celestialità, sopra panni rossi, simbolo della vita terrena che lascia; di Pietro Novelli un “San Cristoforo” che trasuda inedita possanza fisica; del palermitano Lojacono le vedute panoramiche della città trasmutate in evanescenti visioni; e ancora decine di artisti di ogni tempo, soprattutto del Seicento e dell’Ottocento, impegnati in motivi, dal sacro al mitologico, dal paesaggistico alla natura morta, che restituiscono una controstoria dell’arte italiana in cento quadri. Fra cui quello voluto ironicamente dal curatore: le capre di “Paesaggio con armento” di Rosa da Tivoli.