mercoledì 18 dicembre 2019

Tiresia di Camilleri, l'ultimo colpo di sgorbio


Morendo il 17 luglio scorso, due giorni dopo la data fissata per la rappresentazione della sua Autodifesa di Caino alle Terme di Caracalla, dopo l'esibizione al teatro greco di Siracusa, è come se Andrea Camilleri la sua apologia atea l’avesse appena recitata e si fosse congedato consegnando ai posteri il proprio testamento spirituale sotto forma di un libricino adesso pubblicato da Sellerio e nei modi di un antivangelo cosmologico sul destino dell’uomo. Certamente curioso è stato il suo, avendo come atto finale voluto un sipario anziché un segnalibro, quasi restituendo l’autore al suo primo e grande amore che fu il teatro e facendo del suo ultimo titolo uscito, il primo postumo, un copione o una sceneggiatura. Sennonché lo stesso destino gli ha negato la gioia di andare una seconda volta in scena, non più come oracolo laico, il Tiresia quale suo alter ego divinatorio, ma nello spirito di una figura biblica posta a fondamento della fede cristiano-giudaica, un reietto simbolo del male del quale prendere le parti non fosse altro perché imputato perenne della cultura occidentale. 
Tuttavia, a ben vedere, nessun motivo Camilleri avrebbe avuto per compenetrarsi in Caino che non fosse stato quello di sostenere una confutazione divina, nell’arringa difensiva essendo da vedere, al pari di un’apologia socratica rivolta all’umanità, la tesi dell’inesistenza di Dio, quale almeno prova di bontà infinita e di amore per l’uomo. Nella visione di Camilleri, Dio è l’artefice del bene ma anche del male, entro il presupposto – da lui definito “logico” – che senza il secondo non ci sarebbe stato il primo, equazione questa che lo stesso “Dio aveva pensato prima di tutti noi”.
Ma c’è un’altra curiosità, che sa stavolta di coincidenza: dieci anni fa esatti, José Saramago, miscredente confesso non meno di Camilleri, pubblicava un libro che anche per lui sarebbe stato l’ultimo, intitolato Caino, nel quale teorizzava come Satana altro non fosse che uno strumento di Dio incaricato di fare per lui i lavori sporchi, cioè di compiere il male, adombrando quindi l’ultimo inaudito corollario in base al quale Dio è anche Satana. La posizione del Nobel per la letteratura non è diversa da quella di Camilleri, che lo cita appena insieme con altri scrittori impegnati su Caino, e già ricorreva più esplicita in un libro uscito nel 2005 in Francia, Dio, l’uomo e il diavolo, pubblicato in Italia nel 2007 da Sellerio, scritto dall’ungherese François Fejtö: con la differenza che per Fejtö è il diavolo la causa delle deviazioni di Dio dalla via del bene nella sua perenne lotta sull’uomo, mentre per Saramago Dio, interrogato da Caino, non esclude altre forze trascendenti pari a lui, quando per Camilleri “il male è insito in noi, nel momento stesso in cui veniamo al mondo”, assunto che integra l’altro, di derivazione pascaliana e già fatto proprio, secondo cui non c’è bene senza male e non c’è perciò Dio senza Satana. 
Saramago e Camilleri si accostano, ma senza accomunarsi, anche nel teorema sulla giustificazione della presenza di Caino nella Genesi e quindi nella creazione dell’uomo: per Saramago Dio rende Caino incarnazione del male e della maledizione dell’uomo, nello stesso tempo però in cui lo fa anche parte del progetto di salvezza divina cooperando, come il Giuda di Borges, alla Rivelazione; per Camilleri Caino è invece “colui che mise per primo in atto il male, tramutando in atto ciò che era in potenza”, tale da tenere immanenti sulla terra gli effetti del male, senza le implicazioni trascendenti che riguardano la dottrina soterica della Croce. Della quale Camilleri si fa beffa rasentando la blasfemia non meno di Saramago.
La sua “Genesi” è infatti ben diversa da quella del primo libro veterotestamentario che “è molto evasivo nella sua concisione”. Più che altro una sotie. Dio crea il mondo, poi l’uomo e quindi si dedica al giardino dell’Eden dove, avendo un gusto borghese, scopre che mancano i nanetti da giardino. Li crea e, non contento del fatto che non si “cataminano” restando immobili, insuffla loro la vita contro l’opinione degli angeli, salvo poi pentirsi perché i nanetti devastano il giardino, motivo per cui li caccia dall’Eden, tranne uno che chiama Adamo. 
Crea anche una femmina come ha fatto per gli animali e la chiama Lilith, una protofemminista che non ci sta a “conoscere” carnalmente il primo uomo stando sotto di lui, il quale a sua volta è altrettanto contrario a sottomettersi sessualmente a lei, sicché finiscono per litigare e, andata sulla terra Lilith, Adamo si ritrova nuovamente solo. Allora Dio crea da una sua costola (separandola di netto dal corpo, ma in futuro non con altrettanta precisione, lasciandone parte nel maschio e permettendo esseri umani bisessuali) un’altra donna che chiama Eva, la quale è altrettanto emancipata di Lilith e prima si fa tentare da Alialel, un angelo caduto e divenuto demone il quale la ingravida per generare Caino, e poi si fa fecondare dall’arcangelo Stefano e partorisce Abele. Nella “Genesi” camilleriana il male nasce dunque dal Male e il bene è figlio del Bene. Non può esistere l’incesto perché entrambi i fratellastri non possono che sposare le rispettive sorelle gemelle e non esiste nemmeno l’omicidio perché Dio non ha ancora ordinato di non uccidere.
Ma esiste la tentazione: quella di Eva di mangiare la mela indotta da Alialel mutato in serpente, quella di Caino di sedurre la madre Lilith e di avere la moglie di Abele perché primogenito, quella di Abele di uccidere Caino per gelosia e quella ancora di Caino, pienamente realizzata, di assassinare Abele praticamente per futili motivi. Abele ha gli occhi iniettati di sangue e Caino gli legge in faccia la prima “volontà omicida” della storia dell’uomo. Reagisce ed ha la meglio, ma gli è inutile evocare la “legittima difesa” perché Dio la pensa diversamente: vero è che Abele voleva ucciderlo ma ha fatto la scelta di trattenersi mentre lui ha ceduto alla tentazione e ha fatto un’altra scelta. Nella vita è questione dunque di scelte, di libero arbitrio, gli spiega Dio, che lo punisce condannandolo non a morte ma a vita, da trascorrere errando per il mondo evitato da tutti. Ma Caino si riscatterà, fondando città, forbendo metalli, inventando la musica, rendendosi uomo degno del mondo e ponendosi a progenitore dell’umanità, che perciò è il frutto innanzitutto del male, epperò anche del bene che è connaturato in esso.
La lite che porta i fratellastri a scontrarsi e Caino a uccidere Abele è il risultato per Camilleri di un’ingiustizia voluta da Dio dopo che Adamo, padre putativo e becco, li ha fatti uno allevatore e l’altro agricoltore. Chiamati a portare doni a Dio, Abele gli offre in omaggio un agnellino, molto gradito dal Signore, mentre Caino pensa a un gesto tenero e romantico, un mazzetto di fuscelli di canna uguale a quello regalato alla madre e da lei accolto con grande gratitudine e affetto. 
Pensa che così come il dono è piaciuto a Eva riuscirà gradito anche a Dio, che invece lo rifiuta offeso della sua miseria. Abele non lo conforta, non gli sta vicino come farebbe un fratello o un fratellastro e pone così le condizioni per lo scontro, che si ha quando le sue pecore invadono l’orto di Caino divorandone il coltivato. Caino protesta furioso, nasce un diverbio e Abele lo aggredisce per primo, ma poi lo salva. Caino però lo sopraffà e uccide, compiendo un omicidio preventivo nella certezza (che Camilleri lascia inspiegata) di essere prima o poi nuovamente aggredito quando però è stato appena lasciato vivo.
Dopo la punizione all’erranza nel mondo, Caino finisce ucciso accidentalmente da un cacciatore, secondo una certa tradizione rabbinica, al culmine delle sue opere di civilizzazione, ma nel remake di Camilleri che si presenta al pubblico in sua sembianza non può che continuare a vivere anche ai nostri giorni, giunto alla conclusione che “non sempre dal bene nasce altro bene e non sempre il male genera altro male”: una dichiarazione antimanichea intesa a unificare bene e male in una guazza indistinta di meriti e colpe, torti e soccorsi, formando se si vuole il punto centrale dell’autodifesa di Caino. Che si rivolge a un pubblico in figura di una corte chiamata a giudicarlo, della quale non aspetta di conoscere il responso perché va via lasciandole tutto il tempo necessario a decidere. 
La sentenza dunque non può che essere pronunciata in contumacia nell’intento di Camilleri: che, uscendo realmente di scena, come a farlo apposta, ha voluto però che non venga mai pronunciata, cosicché Caino rimanga sospeso tra bene e male, proprio come lui voleva probabilmente che avvenisse, senza pollici verso né calici alzati. Ed è qui che Camilleri diventa Pirandello (suo sogno da bambino quando lo vide in alta uniforme bussare in casa della nonna) entro un gioco di vero e falso, realtà e finzione, proposto a coronamento di una vita vissuta nell’ispirazione del doppio e dello “sgorbio”.