Nel matrimonio di rito cattolico vengono pronunciate dagli sposi in giuramento le parole “finché morte non ci separi”. Ma per necessità di cose la morte separa sempre due coniugi che promettono di vivere tutta la vita insieme. Giocoforza uno dei due è costretto ad andare via prima: a separarsi dall’altro. Marito e moglie lo sanno e ne accettano l’ineluttabilità. Ma il vincolo d’amore, se è anche vincolo di sangue, com’è tra fratelli o membri di una famiglia, rende straziante tale separazione perché la vicinanza diventa tanto più simile all’immedesimazione, alla compenetrazione nell’altro, quanto più il vincolo sia stretto. Quando tale rapporto riguarda due gemelli che sono cresciuti e vissuti insieme, coabitando fino all’età più matura, la separazione diventa insostenibile, fuori dalle possibilità umane.Le gemelle Alice ed Ellen Kessler sono state insieme 89 anni, due mesi e 29 giorni e da tempo avevano deciso di morire insieme, come “scelta di vita” prima che di morte. Per entrambe immaginarsi senza più l’altra avrebbe comportato una prova così difficile da richiedere una forza sovrumana. Il loro esempio dimostra che, oltre al vincolo d’amore congiunto a quello di sangue, la natura umana offre un livello superiore e un limite sconosciuto. Se una madre sopravvive al figlio morto, forse il caso più drammatico di separazione, un gemello invece non vive senza l’altro quando soprattutto si tratti di gemelli monozigoti, stesso Dna e stesso gruppo sanguigno. Nel caso delle Kessler, che hanno sempre convissuto in una relazione simbiotica priva anche di matrimoni e figli – un caso limite e straordinario, di per sé fuori dai comportamenti umani – si è avuta prova dell’esistenza di un grado naturale di legame così forte da non concepire la separazione.
Nessuna delle due aveva una malattia terminale per cui, così come avevano stabilito la data quando sottoporsi sincronicamente al suicidio assistito (e c’è da immaginare che abbiano preteso di avere inalato il farmaco letale nello stesso istante), avrebbero potuto rimandare ancora di qualche anno un gesto di per sé insano ma giudicato legitimo. Due gemelle nelle loro stesse condizioni che però non abbiano avuto una vita sulla ribalta e colma di successi prenderebberosicuramente preso tempo, non mancando di risorse economiche e di salute che non fosse compromessa dai comuni malanni dell’età avanzata. Affronterebbero la vecchiaia rimpiangendo sì la giovinezza ma con essa non anche la fortuna avuta. Il grande successo ha un costo: più diventa remoto e più rende invivibile l’esistenza. Non per caso il lifting è una pratica molto più frequente nel mondo dello spettacolo e Vip che non in quello comune.
Alice ed Ellen hanno voluto dire no alla vecchiaia e non alla vita, al decadimento fisico e cognitivo cioè, alla fragilità corporale, vedendo con dolore il peggioramento non in sé ma nella gemella, nel timore di perderla. A quasi novant’anni si è già vecchi, è vero, ma diceva Seneca di sentirsi non stanco bensì sfinito, condizione nella quale la vecchiaia entra in una “quarta età”. Le Kessler temevano di diventare decrepite, di arrivare alla quarta età che ha il sentore della morte e hanno deciso da sole di fermare la vita: nell’impossibilità cosciente di poterla affrontare senza l’altra. Una condizione così rara nella vicenda umana che manca un aggettivo per definirla, com’è per esempio per un orfano.
Ma perché se nell’uomo manca la forza di vivere da soli c’è invece quella di morire insieme? Programmare una data, non avere ripensamenti per rimandarla, disporre ogni preparativo con lucidità e precisione, prepararsi, giorno dopo giorno e poi ora dopo ora, al suo arrivo nella consapevolezza di avere tutte le facoltà mentali, per giunta in due, senza tentennamenti e cedimenti, non richiede forse una forza ancora superiore? Quanto hanno fatto le Kessler, che la Grande Falciatrice lasciava peraltro in pace a vivere nella consolazione dei ricordi, nel rispetto e nell’affetto generali, nell’agio e tutto sommato nella salute, sottende invero un atto di superbia. Non è la loro una resa all’impossibilità di vivere, ma un rifiuto delle regole della vita. C’è chi si uccide, anche in giovane età, perché ha perso la speranza di guarire da una grave malattia; chi per disperazione in un momento di sconforto e solitudine; chi per delusione d’amore; chi perché economicamente rovinato. Ma cristianamente non è ammissibile che ci si uccida, commettendo peraltro istigazione reciproca al suicidio, perché si è persa la gioia di vivere. Quando la vita non ti nega niente e ti ha dato tutto, anche un tramonto può dare gioia e bastare.
