La siccità che sta prosciugando la Sicilia è niente rispetto a quella che si ebbe nel Seicento nella sola provincia di Montelusa quando il re di Girgenti era ancora infante e una perniciosa penuria d’acqua determinò una grave carestia. Scoppiarono tumulti e ci scapparono i morti.
Finché il futuro sovrano trovò nei libri antichi la formula per provocare la pioggia, giusta l’equazione magica che se l’acqua può trasformarsi in tutte le cose, tutte le cose possono trasformarsi in acqua: perciò accatastò proprio i libri e appiccò il fuoco ottenendo un gran fumo che salì dritto in cielo e fece sì che quella notte stessa piovesse “a redini stise”.
Finché il futuro sovrano trovò nei libri antichi la formula per provocare la pioggia, giusta l’equazione magica che se l’acqua può trasformarsi in tutte le cose, tutte le cose possono trasformarsi in acqua: perciò accatastò proprio i libri e appiccò il fuoco ottenendo un gran fumo che salì dritto in cielo e fece sì che quella notte stessa piovesse “a redini stise”.
Moltissimi anni dopo a Trezza, visto che non pioveva ormai dall’ultimo “temporale in cui si era persa la Provvidenza” e tutti parlavano di malannata, compare Zuppiddu propose di buttare nel fuoco non i libri ma i pali del telegrafo perché aveva ragione padron Cipolla a dire che i fili, come portavano le notizie da un luogo all’altro, si tiravano la pioggia dalle nuvole e la mandavano dove c’era più bisogno, avendo dentro “un certo succo come nel tralcio della vite”. Nella stessa epoca, alla Salonia vicino Vizzini Jeli spiegava a Mara, scontenta per le fave mangiate dalla “Lupa”, che dipendeva dalla pioggia ch’era stata scarsa mentre in paese per la festa di Maria Vergine “c'era un gran concorso di devoti, perché non pioveva dall'ottobre” e in qualche dintorno Pino il Tomo, venditore di rane, diceva alla gnà Lucia che “ci vuol la pioggia pei seminati”, cosa che importava pure a lui giacché “se non si raccoglie né grano né olio non entrano denari in paese e nessuno mi compra le mie rane”. Ma sotto l’Etna Nedda la varannisa si lamentava con la castalda della pioggia, che d’autunno voleva dire sì buon’annata ma costava mezze giornate levate dal conto. Intanto a Mineo “la lunga siccità aveva reso duri come il ferro i terreni, e i vomeri ordinari non riuscivano a spezzarli per preparare i maggesi”. I galantuomini del Casino non parlavano più del sindaco e il marchese di Roccaverdina guardava anche lui scoraggiato la campagna brulla, i contadini fissi a interrogare il cielo di bronzo e i fumacchi lontani dell’Etna che volevano scambiare per nuvole in arrivo, mentre il canonico Cipolla riferiva, per averlo letto, che al nord c’era maltempo e che questa benedizione era già in viaggio per davvero.
L’Ottocento siciliano è stato un lungo tempo di sete e di fame. Una maledizione di arsura e di polveroni, come quelli bianchissimi sollevati dalle carrozze dirette a Donnafugata della famiglia Salina, per cinque ore dopo Bisacquino senza vedere un albero, fra fiumare asciutte, “mai una goccia d’acqua”, sul fondo di “colline avvampanti di giallo”: il giallo del grano e delle stoppie bruciate dal sole, delle distese dei feudi e i latifondi che nei quadri dei pittori siciliani, da Guccione a Paolino a Gianbecchina, sostituisce sempre il verde e illumina paesaggi assolati e lucenti come per un riflesso condizionato, una memoria inconscia che li spinge a vedere la siccità anziché la fertilità e li tiene lontani dall’immaginare panorami sotto la pioggia e in giornate uggiose. Un transfert spontaneo, come quello che induce Pirandello in I vecchi e i giovani a vedere nella pioggia i benefici economici andati tutti all’Italia settentrionale, senza che mai una goccia ”ne era caduta su le arse terre dell’isola” e nell’aridità siciliana il “gran fuoco che presto sarebbe divampato” dei Fasci siciliani, simili a “una catasta immane di legna, di alberi morti per siccità”.
Siccità che è dunque sinonimo di morte e per Pirandello innanzitutto di malaria. Il vecchio Siròli della novella “Alla zappa!” si riscuote finalmente allo scroscio notturno della pioggia e alla moglie dice “Domani, se Dio vuole, romperemo la terra”, perché “la campagna, infestata nei mesi estivi dalla malaria, pareva respirasse ora”. Per De Roberto la siccità è come il colera e segno di punizione divina, tanto che nei Viceré il priore dispone un triduo e una processione per impetrare la pioggia invitando alla preghiera e alla penitenza così da “indurre la Divina Clemenza a perdonare i peccatori”.
Con il miglioramento non del clima ma dell’utilizzo delle poche risorse piovane, nel Novecento la siccità arriva a fare meno paura. Bufalino la pone accanto alle grandi piaghe siciliane, la gelata, la grandine e la peronospera, ma al livello più basso: “Mai dalle mie parti era durata tanto che un filo d’erba non sopravvivesse nei tronchi asciugati dalla canicola per aiutarli nel loro soffrire e consentirgli di resistere fino al prossimo diluvio”. E se per Sciascia “l’apparizione dell’acqua è sempre un prodigio, un miracolo” che si compie in una Sicilia che già Ibn Idrisi vedeva semiarida, “dalle piogge scarse concentrate nella corta stagione invernale e la lunghezza dell’estate siccitosa”, Vittorini arriva a vedere nel cuore della Sicilia, a Contessa Entellina, addirittura un deserto, quello di Calatamauro, dove il pastore errante pensa di abbandonare i suoi due gemelli, trasposizione dei siciliani soli, benché “col rischio che non sappiano più uscirne e vi periscano di sete”.
Articolo pubblicato il 31 gennaio 2018 su la Repubblica-Palermo