Un libro giudicato minore di Gesualdo Bufalino, pubblicato nel 1994 con il titolo Carteggio di gioventù dall’editore del Girasole Angelo Scandurra (che un anno dopo lo festeggerà per il suo settantacinquesimo compleanno da sindaco di Valverde in una delle ultime apparizioni pubbliche dello scrittore comisano) è utile per lumeggiarne l’età giovanile nel confronto, tramite un carteggio, con un intellettuale cattolico lombardo, Angelo Romanò, che è in teorica antitesi con Bufalino ma nello stesso tempo in piena sintonia.
Nell’Italia sconvolta dalla guerra di liberazione, hanno poco più di vent’anni (sono nati a un giorno solo di distanza: il 14 novembre 1920 Romanò e il 15 Bufalino) quando si salvano scambiandosi per posta impressioni su come convenga tradurre gli alessandrini di Baudelaire, sui personaggi reali corrispondenti a quelli fittizi di Proust, sulla scoperta di Kafka. Senza pronunciare la parola “guerra” e ricorrendo a eufemismi per parlare di morte, i due studenti sbandati e infelici, preda di un amor fati che tradisce un sentimento comune di invincibile cupio dissolvi, superano la tempesta che spinge alla deriva il mondo affidandosi alla zattera salvifica della letteratura.
Imponendosi di ignorare quanto sta venendo loro attorno, i due giovani reduci ci consegnano, attraverso le loro lettere, una rappresentazione degli anni seguiti alla caduta del Fascismo non meno dolente, viviscente e amara, delle migliori pagine di un Fenoglio, di un Vittorini o di un Malaparte. Si conoscono sotto le armi e si frequentano il tempo appena sufficiente per cementare un’amicizia (ancor più significativa perché nutrita dal solo interesse letterario) che, divenendo un sodalizio destinato a durare tutta la vita, appare prima facie una forma ideale, opera di un siciliano e un lombardo, di riunificazione nazionale ricreata, al di sopra delle Linee Gustav, Hitler e Gotica, con il collante della letteratura.
Ma invale soprattutto la consonanza tra un gusto letterario, quello decadente (molto diffuso nelle coscienze emergenti, indifferenti a quegli influssi alternativi al modello uscente dello stream of consciousness post-positivistico e post-idealistico che il realismo oggettivo di derivazione americana si prepara ad esercitare), e il travaglio di un’epoca che, gabellando la sua ingovernabile temperie, sollecita la New age, «abbandonata al dolce declivio» dei maudits, a chiamarsi fuori dalla mischia, ricercando una via di fuga attraverso il rovesciamento dei rivolgimenti della storia per giungere a trasfondere la sconfitta – e per essa il soffuso senso di finis vitae – in inespugnabili paradis artificiels. E non è forse questo l’esprit che ha pervaso il decadentismo baudelairiano e più ancora il simbolismo verlainiano, che tanta parte ha avuto nella lunga stagione letteraria italiana, aperta nel 1890 e apparentemente conclusa nel 1945, per allungarsi invece fino ai nostri giorni?
A partire dalla fine del ‘43 i due giovani studenti si scambiano un carteggio tanto fitto nell’età giovanile quanto, contrariamente all’aspettativa, sporadico negli anni della maturità. Si è che entrambi, in età avanzata, si crederanno degli scampati a uno spleen che ha rivelato loro la morte una «santa nichilitade», costringendoli «a venire a patti con la vita» e trasfigurandoli infine in un doppio di sé provvisti di sempre minori motivi per rinfocolare una corrispondenza che è stata alimentata solo dalla concorde «vocazione a non esistere». Ma anche negli anni della massima frequentazione epistolare evidenti appaiono le diversità tra Bufalino e Romanò, non tanto in politica e in letteratura (entrambi decadenti, ma uno crepuscolare-nichilista e l’altro incline al misticismo estetico), quanto nella religione.
A un certo punto Bufalino scrive: «Tu prega», ma subito corregge «Tu pensami», cancellazione che sconcerta ben a ragione il cattolico Romanò, al quale Bufalino troverà poi come confessare: «Non riesco a credere in Dio. Ad ogni giorno mi cresce l’impazienza e la superbia». Ma sono diversità che entrambi stemperano chiamando i libri a fare loro da conciliatori, affermandone così il primato ecumenico. Di fronte all’«urgenza del «presente», che nel ‘76 diventa «l’inguaribile ustione: la guerra, la malattia, l’ingresso dell’idea della morte in un cuore innocente», Bufalino si rivolge a Romanò e dice: «Parliamo di libri, vuoi?», lasciando superbamente nel vago per tutto il carteggio – e per quindi per tutta la vita – se dei libri sia propria la facoltà di rilasciare un viatico per la morte oppure un salvacondotto per la vita.
Gesualdo Bufalino e Angelo Romanò (figura di primo piano del cattolicesimo cosiddetto di sinistra, fine critico letterario, dirigente Rai e infine, con non poche polemiche, parlamentare della sinistra indipendente), dopo essersi conosciuti a ventitré anni non si incontreranno mai, nonostante i reiterati impegni a rivedersi, epperò fino alla morte di Romanò, avvenuta improvvisamente nel 1989 a 69 anni, non smetteranno di stimarsi, come si conviene a due intelligenze accomunate da un «mal di vivere» che ne fa «dolci amici capaci di sorridere dinanzi a un bel verso».
Il carteggio riunisce 97 lettere che sia Bufalino che Romanò hanno conservato senza mai confessarselo e ciò hanno fatto, crediamo, non solo per rispetto verso un’amicizia coltivata tutto sommato sul piano virtuale (nella quale le confidenze personali sono sempre tenute a un livello appena accennato) quanto soprattutto per il reciproco riconoscimento della qualità letteraria dei rispettivi petits poémes en prose. Che disvelano, per quanto riguarda Bufalino, aspetti inesplorati della sua vita, della sua attività di scrittore, tali da dover essere assunti come propedeutici alla conoscenza della sua opera, a cominciare da quel Diceria dell’untore che non può più essere riletto senza prima aver avuto accesso al carteggio Romanò.
Se è infatti vero, come dice Sciascia, echeggiando Rousseau, che l’uomo è ciò che è stato da giovane, il ritratto dell’artista che restituisce il carteggio ci rimanda un Bufalino che non è un tardo fenomeno letterario, ma un letterato il cui sigillo, e con esso la sua fede nella religio delle lettere, si mostra già chiaramente definita vent’anni per rimanere inalterato lungo tutto il suo percorso poetico, prova questa di una coerenza stilistica e di una fedeltà al proprio insegnamento che nella provincia italiana delle lettere ha poche analogie.
Il carteggio, che riluce di una vena elegiaca eletta a sua principale cifra, appare a una prima lettura un mesto epicedio a quell’«ultima impostura» che Bufalino evocherà nel Qui pro quo. Ma con le poche lettere provvidenzialmente aggiunte negli anni ‘76-‘81 (quando Bufalino vede in televisione Romanò trasformato in «un anziano signore dai capelli bianchi» e, diventato egli stesso affermato scrittore, lascia che Romanò possa a ragione dirgli «Lo sapevo»), l’epistolario si traduce in uno struggente e letterariamente riuscito inno alla vita, di cui, con la sublimazione del suo lungo divenire, baluginano i recessi più reconditi, dove vita, morte, guerra e malattie si trasmutano in un «lucido mondo di miti».