giovedì 20 novembre 2025

La parabola di Raffaele Poidomani ai confini del realismo


Raffaele Poidomani (1912-1979) è uno dei tanti scrittori dell’area siciliana aretuseo-iblea che, minori, dimenticati e defunti, hanno avuto, anche dopo il riconoscimento del loro talento, sia pure in ambito rimasto comunque municipalistico, vita grama ed effimera, pubblicati da editori locali e non più riproposti. Nel caso del modicano Poidomani, che ha avuto una seconda vita letteraria grazie alla pubblicazione nel tempo dell’opera omnia, l’interesse è venuto solo da una piccola casa editrice, la milanese Colibrì, che come le altre della stessa stregua non ha però alcun peso nel mercato nazionale e nessuna forza per lanciare un autore.
Poidomani divide il destino con altri scrittori altrettanto misconosciuti della stessa area: i netini Corrado Sofia e Corrado Di Pietro, il palazzolese Giuseppe Rovella, il canicattinese Antonino Uccello, i comisani Salvatore Fiume, Carmelo Lauretta e Nunzio Di Giacomo, il modicano Franco Antonio Belgiorno, la ragusana Maria Occhipinti, lo sciclitano Severino Santiapichi, il vittoriese Emanuele Mandarà, Enzo Leopardi di Santa Croce Camerina, Vann’Antò di Ragusa…
Tutti hanno avuto lo stesso trattamento spettato nell’Ottocento al chiaramontano Serafino Amabile Guastella, che una migliore attenzione del sistema editoriale nazionale avrebbe piazzato nella storia della letteratura come naturale antecedente di Giovanni Verga. Una migliore attenzione avrebbe per esempio, per restare sempre nell’area iblea, premiato ben più meritatamente l’opera di Giuseppe Fava di Palazzolo.
Il solo caso nel quale un editore nazionale, Einaudi, ha “scoperto” un autore ibleo è stato quello di Vincenzo Rabito di Chiaramonte Gulfi, assurto a una fugace notorietà per via di un libro autobiografico, Terra matta, scritto da autentico semianalfabeta e per questa ragione visto, per la sua torrenziale bulimia, degno di essere considerato letterario.
Lo stesso Gesualdo Bufalino sarebbe stato uno di loro, un intellettuale di provincia, senza l’illuminante e fortunoso intuito di Elvira Sellerio (editrice di primaria importanza nella storia della Sicilia che non pubblicava gli autori affermati, come oggi fa comodamente il figlio Antonio) e l’attenzione prestata al suo caso da Leonardo Sciascia, il principale talent scout siciliano, al quale si deve, insieme con Calvino, se Amabile Guastella poté uscire dal buio più totale.
Raffaele Poidomani, dunque. Visse a Modica, ma in gioventù anche a Catania, Milano, Bologna, Napoli, Roma, Messina, ed ebbe una vita dedita alla ricerca paleografica, agli studi sul Medioevo, alla poesia, alla narrativa e al bere. Portava anche il cognome della madre, Moncada, e apparteneva a una famiglia di qualche quarto di nobiltà. Quando si laureò in Giurisprudenza presentò una tesi in versi e il presidente della commissione gli disse che non sarebbe mai stato un avvocato. Promotore di testate giornalistiche, collaboratore in numerosi giornali, novello demopsicologo interessato alle tradizioni locali e perciò collezionista di arnesi ma soprattutto documenti di archivio, professò ideali comunisti ma ebbe per amici anche parlamentari democristiani. Spirito estroso, brillante, allegro, ma anche acuto polemista, distillò nella sua scrittura arguta, spumeggiante, fatta di trovate, ammicchi, bon ton, l’agrodolce di una visione del mondo schiettamente provinciale, quasi curiale. I suoi maggiori libri sono Carrube e cavalieri del 1954 e Tempo di scirocco del 1971, pubblicati sibi et paucis il primo a Roma e il secondo a Modica.

Non c’è forse libro più ragusano di quello ritenuto il capolavoro di Raffaele Poidomani. E non tanto per la stretta rispondenza a fatti e personaggi territorialmente riconoscibili o per la forte vocazione di modelli culturali autoctoni (il blasone, il mito della famiglia, il retaggio dei costumi, le convenzioni sociali), quanto perché costituisce la prova della ripulsa che la narrativa iblea ha tenacemente opposto all’esorbitante neorealismo postbellico. Poidomani scrive Carrube e cavalieri nel pieno della stagione che da un lato involge la smania calviniana di raccontare e da un altro opera il tentativo di dare alla letteratura una funzione ideologica e costruttiva che, integrando un obbligo di partecipazione sociale, troverà sbocco in soluzioni esistenzialisti dalle quali saranno banditi i richiami alla prosa d’arte e ai temi di contenuto intimistico.
Se perciò il neorealismo postbellico indugia a rivangare la tradizione romantica e veristica, i motivi della reazione anche ragusana al fascismo si rifanno invece ai postulati decadenti, nutriti prevalentemente dal mito vittoriniano e pavesano dell’infanzia e della giovinezza, che si traduce in metafora della disadattabilità e che conduce a quel simbolismo (da qui il barocchismo di Bufalino) nel quale il recupero della memoria agisce come conseguenza del rifiuto di visioni ideologiche o di strutture narrative di tipo naturalistico.
Proprio quando la letteratura italiana tocca il più basso grado di provincialismo, perché corre il rischio di ideologizzarsi e di essere misurata in termini di pelosi e saputi toni morali e civili (si pensi alla polemica Vittorini-Togliatti), il libro di Poidomani, nato e pubblicato nello stesso periodo, sottende una convincente e coraggiosa prova di obbedienza all’invito di Vittorini a non correggere in sé stessi gli errori della propria epoca. Riuscendo, non meno di altri autori ragusani e siciliani, a resistere ai richiami neorealisti prima e sartriani dopo, Poidomani sa anche tenersi a distanza da certo neoregionalismo che non più lontano di Napoli sta dettando nuove norme, ripiegando sull’apologetica ottocentesca, tutta intesa a mostrare all’Italia legale quella reale e configurandosi come un remake della vecchia letteratura romantico-popolare.
Sono altre le spinte che muovono Poidomani, la cui prima preoccupazione è di tenersi saldo ai canoni del bello scrivere richiesti dall’adesione a quella prosa d’arte di derivazione rondista che deroga al nascente imperativo dell’intreccio (l’«imbroglio» di Moravia), teorizza le digressioni disgiunte dal plot, autorizza le divagazioni, elimina le interferenze politiche e sfiducia gli ideali filosofici. E cos’altro è Carrube e cavalieri (con i suoi «capitoli» che, componendo una myse en abime, lo stesso Poidomani preferisce chiamare «racconti») se non un appassionato esercizio regolato sul passo della narrativa decadentistica, che mitizzando i ricordi d’infanzia e imponendo estenuate prove di stile, libera lo scrittore dal dovere morale di sentirsi coinvolto nei conflitti che dividono il mondo?
Ma a formare il gusto di Poidomani concorre anche – e in maniera penetrante – il credo realista. Pur trattandosi di un realismo esemplato sulla versione «mitica» di Vittorini e Pavese, con qualche attenzione rivolta nello stesso tempo a quella «magica» di Bontempelli, Poidomani sceglie il registro autobiografico per intessere una saga famigliare calata in un quadro vagamente storico di lunghissimo periodo che corrisponde alla fanciullezza dello stesso autore. Il quale non appare mai in scena, ma tenendosi scrupolosamente sulla testa dei fatti e dei personaggi li balestra in un abile gioco da burattinaio così compiacendo il Bontempelli per il quale «compito primo e fondamentale dello scrittore è inventare miti e storie che poi si allontanino, fino a perdere ogni legame con la penna e in tal modo diventino patrimonio comune degli uomini e quasi cose della natura».
Poidomani è reduce dall’esperienza di Fossili, racconto propedeutico a Carrube e cavalieri, e ha perciò già manifestato la sua schietta riluttanza a trattare la storia (che pur costituisce una sua passione innata, ma originata più che altro da intenti di ricostruzione araldica e genealogica) nella maniera cara al neorealismo postbellico e ai suoi rigurgiti positivistici.
In Carrube e cavalieri Poidomani sarà piuttosto mostra di preferire la letteratura cosiddetta tra «di crisi», cioè decadentista, per giustificare la spinta a osservare il mondo reificato da un eccentrico punto di vista autobiografico. Il modulo che piace a Poidomani è perciò quello del romance anziché del novel, nel senso che ai due termini ha dato la cultura americana distinguendo il racconto con concessioni fantastiche da quello strettamente realistico. Ed è adoperando questo discrimine che si può attribuire una natura letteraria all’opera maggiore di Poidomani, il quale non è peraltro indifferente agli influssi esercitati dalle nuove discipline sociologiche, psicoanalitiche e antropologiche che uno scrittore del Novecento non può non conoscere. La persistenza di un tema come quello della fanciullezza va quindi vista in Poidomani in consonanza con i nuovi gusti letterari. Per di più, come ogni altro scrittore siciliano nella prima metà del secolo, anche Poidomani non può non misurarsi con il grande magistero verista, la cui onda lunga arriva ben oltre la morte di Verga, l’importanza del quale solo negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale forma oggetto di una più compiuta indagine.
Ma Poidomani, che si rivela ben capace di sottrarsi alle suggestioni della moda (il che non è assolutamente facile), non ha alcuna intenzione di farsi debitore di Verga e se qualche accostamento è possibile con la scuola verista è a De Roberto che bisogna guardare, la cui opera precorre esiti in qualche modo decadenti. Allora, ancor più che con Il Gattopardo di Lampedusa, Carrube e cavalieri ha forse qualche cosa da spartire con I Vicerè e la saga degli Uzeda. Poidomani irride alla società del suo tempo, vista con gli occhi di un bambino, ne denuncia i vizi e i limiti, nel rivela la dabbenaggine, la pochezza mentale, ma non ne prende le distanze come fanno De Roberto e Lampedusa – e come omologamente fa un grande decadente come Thomas Mann, portando a esiti funesti la saga dei Buddenbrook. Cosciente di fare parte dello stesso mondo, Poidomani vuole invece fermarne il dissolvimento e in un passo che forse è la chiave del libro il bambino cede il posto allo scrittore anziano che, piegato sulla macchina per scrivere, versa lacrime di rammarico, di pena e di rimpianto, nel ricordo di persone che hanno popolato e riempito la sua vita e di cui sente la struggente mancanza.
Siamo nel cuore della poetica di Pascoli e del mito del suo «fanciullino», in linea con l’idealismo crociano e in perfetta regola con i dettami del Decadentismo. Lampedusa e De Roberto sono nei paraggi, ma lontano è Verga e ancora più lontano è Capuana, con il suo teatro di guitti e il suo mondo di poveri, tutto esploso in superficie. La rappresentazione della nobiltà terriera protagonista di Carrube e cavalieri non è mai istrionesca né grottesca e Poidomani indulge a espressionistiche caratterizzazioni demistificanti. E se qualche tributo si sente di dover pagare è al romanzo psicologico realistico di tipo manzoniano che l’autore modicano inclina, in ciò che è l’identificazione tra io narrante e commentatore, e quindi affettando una veste moraleggiante.
Ma con un uso compiaciuto e divertito dall’ironia (l’arma prediletta dell’istanza crepuscolare puntata contro il reale e la storia), Poidomani compie un’operazione di trasfigurazione del suo mondo borghese, demitizzandolo ma al tempo stesso sublimandolo. Quel che più conta è però lo sforzo cui con Carrube e cavalieri Poidomani si sottopone, aprendosi a strade che soltanto con Tempo di scirocco riuscirà a percorrere, avvicinandosi al mondo surrealista di un Buzzati e di un Calvino e mettendosi quindi al passo con la cultura nazionale ed europea. 
Uno dei quattro volumi dell'opera omnia
I nove racconti di Tempo di scirocco appaiono raccolti sotto un titolo che è una sigla epifanica. Lo scirocco, vento eponimastico della Sicilia, è l’agente esterno e incombente che pone ogni vicenda umana sotto una cappa oppressiva e soffocante. Nel primo e nell’ultimo racconto, come incipit ed excipit, lo scirocco è il deuteragonista occulto dietro il quale si maschera la morte. In La morte di un Santo, Don Filippo, ormai vecchio, sente nelle braccia di Nela lo scirocco come «un’aria stagnante, grassa», come «torpore e noia» che si fa condensa e che «cola come olio». E in un ultimo, fatale rigurgito d’amore, Don Filippo ricorda Mena «venuta a tenergli in compagnia portando tra le braccia e le gambe solleone e tramontana insieme», cioè calore e freschezza. Quindi la vita.
Quando ha appena gustato le grazie di una procace giovane serva, Don Filippo resta quindi ucciso dallo scirocco che è «l’appiccicaticcio respiro del tempo entrato dal balcone schiuso». È il tempo, cioè l’età avanzata, la quale non ammette aneliti di gioventù, a uccidere il vecchio gentiluomo. E il respiro del tempo è lo scirocco, che si appiccica «su tutto, nelle carte, nel tavolo, nei pantaloni, le cui ginocchiere si attaccano alla pelle».
Nel racconto di apertura, Mariantonia muore prendendo «la via del silenzio nel giugno pesante di scirocco umido e vischioso» e sente il richiamo del figlio morto giungerle in «un mezzogiorno che il silenzio estivo grava tra broccoli e prezzemolo, facendo ristagnare nell’aria un odore di verdura decomposta dallo scirocco». In Don Sariddu, quando la salma viene tumulata, i necrofori imprecano sul primo caldo di marzo, che è «tempo di primavere stanche di scirocco» e sull’approssimarsi di un’altra estate, che è nuncius della morte perché riporterà lo scirocco.
Lo scirocco ha quindi il sembiante della morte ed è sinonimo del tempo che uccide con il semplice suo trascorrere. Poidomani si trova ad affrontare il tema, caro al gusto decadentista, del tempo, quindi della vita e della morte, della gioventù e della vecchiaia, scegliendo una grammatica che del tempo fa un’astrazione, creando per questa via una fabula. Per fare questo ricorre alla scomposizione del tempo cronologico, servendosi sistematicamente di anacronie che distorcono l’intreccio. I fatti, in quasi tutte le novelle, non vengono raccontati secondo la successione temporale degli eventi, ma per linee interne, per modo che alla presentazione del personaggio o all’anticipazione dell’epilogo stesso della storia, seguono puntuali digressioni che rovesciano l’ordine della storia e l’ordine della narrazione, cosicché a presiedere è proprio la fabula (cioè il riordino logico che il lettore deve esattamente compiere delle unità narrative) anziché l’intreccio, che è invece la disposizione formale delle parti del racconto.
La distinzione, che postula una scelta cosciente da parte dell’autore, non è soltanto stilistica. La destrutturazione del tempo reale dei racconti assume piuttosto un valore poetico e accerta il valore di metafora dei racconti come manifestazione della propria condizione interiore. Poidomani potrebbe tenersi legato in maniera ortodossa al registro realistico, raccontando in modo allodiegetico (ovvero come narratore che è testimone dei fatti narrati), storie vere recuperate dalla memoria secondo il più diffuso mood letterario ibleo, ma è all’apologo che mira mentre vuole nello stesso tempo tenersi lontano dalle spire documentaristiche di tipo meramente neorealistico. D’altronde è proprio in questa direzione che tutta la letteratura iblea inclina senza ripensamenti.
Carrube e cavalieri, partito dagli stessi propositi di calettare mito e realtà, verità e sogno, si ferma in questo senso a metà strada, perché tradisce una vena più realistica laddove Tempo di scirocco appare del tutto libero da pastoie e memorialistico-autobiografiche, valendo come prova più matura a coronamento e conclusione di un percorso stilistico coerente, seppure praticato per tappe disomogenee se si pensa a Fossili (1949) e Catania, giorno e notte (1960). Un percorso che da una base di partenza realistica raggiunge progressivamente mete surrealistiche, ma che conserva, come segnacolo, il passo del racconto, dell’episodio e dell’aneddoto.
Quasi vent’anni separano Carrube e cavalieri da Tempo di scirocco e Poidomani non si riconosce più nel mito dell’infanzia e della fanciullezza che lo ha nutrito, perché ha maturato il senso di una letteratura capace di essere autre quale è stata per Bontempelli e ancora di più per Savinio. E pur rimanendo nell’orbita del realismo, è a quello «magico» che rivolge adesso il suo interesse così da consentirsi proiezioni fantastiche e assicurarsi il mantenimento inalterato del rapporto narratore-narratario cui mostra di tenere, dando dimostrazione di ripetute metalessi che compie intervenendo nella trama per parlare in prima persona direttamente al lettore, ciò che ha fatto in Carrube e che induce a ripetere in Scirocco.
Racconti in forma di apologhi quindi, quelli della raccolta, ma senza che Poidomani rinunci a fare sentire la propria presenza. E quindi a tenere fermo il dato realistico. La difficile operazione, che rischia l’autoreferenzialità, riesce a Poidomani astraendo i riferimenti temporali ma fissando concretamente quelli di luogo e di spazio. Ed esercita il massimo scrupolo per evitare la trascodifica delle isotopie che riguardano la città di Modica, teatro sul quale tutte le vicende si inscenano, attraverso le sue piazze, le sue strade e i suoi personaggi veri come Ciccio Bonajuto.
Rilevando racconti la cui veridicità si coniuga con la verosimiglianza e dove l’irreale viene spinto con levità e naturalezza fino al surreale e all’assurdo, Tempo di scirocco risente in profondità dell’influenza che a Poidomani arriva da autori come Beckett e Ionesco, portatori di un sentimento post-decadentista molto diffuso nella coscienza letteraria europea, che guarda alle smanie esistenzialistiche ed è tutta tesa a rappresentare una società retta su valore nichilisti, popolata di uomini disperati e soli, sovrastati da un destino di annientamento, contro il quale l’unica arma è l’ironia, se non la comicità.
La ricerca di Poidomani è nel senso di un linguaggio ironico, a volte sardonico e beffardo, ma sempre amaro e dolente, che riflette e consola la sua condizione di intellettuale sostanzialmente pessimista e rassegnato, non declamatorio né moraleggiante, e che sui toni di uno stile sotteso alla inverosimiglianza si mostra capace di denunciare lo stato di abbandono e di degrado che sente come una condanna collettiva pronunciata contro uomini che, per la forte ambientazione nella Modica dei nobili e dei contadini, dei cavalieri e delle carrube che è il suo mondo irrinunciabile, non possono che essere i suoi compaesani e quindi siciliani.
In questa visione vagamente alvariana, i personaggi di Poidomani sono figure destinate a non sopravvivere, quasi tutte appartenendo a un mondo in dissoluzione, del quale il marchese del Burgio è l’esponente epigonale che finge alla finestra di mangiare biscotti per mantenere, pur in assoluta povertà, un suo decoro e una sua dignità. Quasi tutti i personaggi di Poidomani infatti muoiono. Muore «Nino coccodè», come in un sogno, travolto da una bicicletta per salvare Rosa. Muore l’avvocato Nitto Di Maglio, travolto dall’angoscia, anch’egli in un’atmosfera intrisa di sogno, nella quale la realtà si rende del tutto evanescente. Muore don Giulio Papale, travolto da una mortificazione irredimibile. E muore anche Don Sariddu che però risuscita per tornare alla sua bottega e immergersi in una rêvery che dostorce anche gli avvenimenti storici. Don Sariddu è il racconto che segna il punto di ricognizione più avanzato raggiunto da Poidomani nei territori del surreale. E svela qual è il carattere letterario che intride tutti i racconti, sospesi tra la banalità borghese e la morte per dissoluzione: com’è per Savinio, un racconto del quale, Il signor Munster è omologo a Don Sariddu perché come lui si guarda morire e occupa la linea dove vita autre vie si confondono e assimilano.